Inédit Laura Fusco

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Le poème « Nancy » a été écrit par Laura Fusco dans le cadre de la résidence ARIEL 2019. Elle y évoque la vie à Nancy, ville où l’art est omniprésent et que le regard de la poétesse capte à chaque coin de rue, qu’il prenne la forme de l’artisanat du verre, de l’architecture Art Nouveau ou encore des moments d’euphorie partagés par des inconnus sur les terrasses de la Place Stanislas. La version française, traduite par Giorgia Bongiorno et Elise Montel-Hurlin, suit le texte en version italienne.

 

“Nancy”, texte original en italien

La cera persa,

gli acidi

la polvere

E tutti i segreti dei maestri vetrai per trattenere la luce,

ricrearla,

inseguirne e reinventarne

i riflessi,

aggiungendo e togliendo

materia alla materia,

colore al colore.

L’anima come vetro,

qui,

lavorata allo stesso modo dalla stessa

luce,

esce dalla camera oscura del sonno

che già Nancy è

chiara trasparenza, impermanenza di

vento furioso

e nuvole.

Il cielo,

addosso,

sopra,

dentro,

muta (con) le persone:

si affrettano,

indaffarate a vivere,

e poi tornano a casa

come in sogno appena

–presto-

la luce scende a capofitto sulle piazze e su Anfitrite

seminuda.

Oltre

l’incendio delle porte

dà accesso al parco e al respiro

dei milioni di foglie della Pepi,

nere notte,

poi

più chiare e poi ancora

di più allo Chapiteau.

Note di blues

note di sax

note di jazz

Il violino

stregato

di Ponty

accarezza seduce riga la notte e la cura,

di bellezza

E poi,

irreali e come solo pensati o immaginati,

turisti.

Parlano fitto in fila sui marciapiedi o uscendo dai locali,

le voci galleggianti, isole di suono,

nel mare d’ovatta illuminato dai fanali.

Sortilegio del buio, tutto sparisce,

anche la volontà di essere, pensare,

ha una sua notte e tregua.

Il vento

s’addormenta.

Qualcosa di non detto da sempre,

qualche parola o gesto che tutte le sere si cerca di finire

resta incompiuto e ricomincia

il giro.

Correnti,

uscite chissà da dove, spingono

chiarore abbacinante a allagare

Piazza Stan,

e a diventare sassaiola di pioggia e poi

tramonto colore d’alba. Al primo

piano

l’oro dei gigli di Francia e delle foglie di quercia

sembra un’eco di quello

del Caravaggio:

le sue lame di sole liquido annunciano una nascita

che verrà,

ma è già tutta in quel chiarore e brucia sotto

l’arancio delle luci iodate dei dehors

Scaldano il tempo di un ultimo caffé

La gente,

con le coperte sulle ginocchia o sulle spalle, che ride fuma si racconta

Beve ride si racconta

Racconta che si racconta e che ride.

Tra i tulipani e il Vol de mon amour

di Daum

E ancora più in alto,

sull’affiche di Cendrillon dell’Opera,

Mercurio danza davanti al Sole,

la prossima volta succederà nel 2032,

un cielo grigio neve nasconde l’eclissi parziale agli occhi di bambini congelati,

corrono e fanno i soliti giochi,

certi di essere i primi al mondo.

E già di nuovo è alba,

lentezza imbambolata che soffia luce,

fa sentire leggeri,

pronti alla geografia di un nuovo giorno.

Basta bisbigliare piano,

allungare la mano,

cercare una risposta o

rinunciarci e non pensarci

più.

Sul rosso del velluto dei divani

del Café Foy:

la vita può cambiare

basta cambiare

prospettiva, centro di gravità, parole.

Buio

che diventa suono

spinge luce,

che porta via

mistero

Rinasce

la città,

da cancelli a proteggere minuscoli cortili,

di melograni e mirabelliers

e di mirti.

Qualche pigra luce

si accende,

qualche ombra

passa e ripassa dove

era passata,

con un grande asciugamano.

Poi iniziano le voci,

a entrare nel mattino che si alza e diventa

di rumore.

Quello che la notte aveva reso eterno e possibile

non lo è più ma

lo risarà,

in un altro modo:

nella Grand Rue,

il suo bianco perenne, costellato di oro di finestre,

sempre accese e sempre chiuse,

da cui nessuno si affaccia mai,

che nessuno apre mai,

in rue de Cordeliers

sempreverde di siepi

e nidi,

in piazza Epfvre suono di bicchieri,

il concentrato di chi beve un caffè o una birra per colazione e chissà cosa pensa, se pensa

o lo fa per non pensare

Qualcuno resta allo stesso tavolo,

si confonde col pomeriggio e scivola e diventa sera

di risa,

di happy hour color ambra e rubino.

I ragazzi,

a quest’ora,  

posano il giorno di studi e fanno palestra,

nella sala con gli specchi del batiment tra i prati

della Fac.

Hanno reso migliore il mondo solo essendoci

Essendo curiosi e guardandolo con i loro occhi

giovani.

Nulla esce dall’ordine

prestabilito

Ma è un ordine che inventa

mille futuri. Al freddo,

di quasi Natale, clochards,

quello dell’Arc Héré,

circondato da lumini sotto i pesci volanti dell’installazione Arc’Quatique,

quello che alle 2 entra e esce dal Carrefour già ubriaco e va a sedersi,

con il suo cane tigrato,

su un cartone

e quelli e quelle su altri cartoni sotto Au bon lit,

o in qualche anfratto sotto i bancomat

di rue Saint Jean, des Dominicains, saint Dizier.

Il canale

con il ristorante galleggia

nella città

nuova,

les Anciens Abbattoirs vengono da lontano e vanno lontano,

crocevia di tempo che si riavvolge e proietta verso altro/crea altro

tempo,

un ricordo nelle parole di qualcuno

l’atmosfera di fumo e sere infinite

dell’Excelsior,

le porte ruotano e riruotano, sliding doors per altre dimensioni,

e allo stagno

dell’Ecole de Nancy

le ninfee che hanno ispirato i vetrai

aspettano altri che le catturino con gli stessi o altri occhi  

e rendano immortali stavolta in una foto un selfie

o dentro l’anima assetata

di bellezza.

Ragazze

tutte le notti spariscono,

tra le 2 e le 3,

tra le maglie allargate del tempo,

tutte innamorate, tutte vestite di fiori.

Qualcuno

le ha viste, camminare veloci, dice, in di rue de la Charité, no rue de la Source,

no, tra les hetres

pourpre i cedri del Libano la Sequoia

gigante

che osservano il mondo dall’alto dei loro 30, 50, 70 metri e cento anni

e a volte

più.

Li hanno salvati,

c’è scritto sulla targa,

e forse la loro presenza è un racconto tutto verde di epoche passate, guerre e liberazioni passate, bombardamenti passati,

che non hanno fermato le lotte,

per il futuro che è adesso,

di nancéiens passati.

Qualcun altro invece

dice di vedere le ragazze da mesi,

tutti i venerdì, all’alba, infreddolite,

entrare nell’antica

graineterie Genin,

i suoi petali e il suo azzurro per un attimo allora si illuminano come Swarowsky,

dietro gli annunci dell’immobiliare e vecchi

affiches

fanés.

Forse

tornano da una lunga nuotata alla Piscine

Ronde.

Tra le colonne

aspetta un’acqua che qualcuno ha prosciugato per lavori,

la sua bellezza fragile e così potente anche senz’acqua,

anche se il suo futuro è pieno di progetti ipotesi e domande,

ma adesso è silenziosa,

dimenticata nel cuore di un inverno bianco,

assordante di solitudine e fantasmi

di bagnanti. E 

di Gretchen.

Anche lei

forse

ci ha nuotato,

prima di volare sulla bici

oltre lo slargo del Lycée

Chopin,

a aspettare il suo ragazzo, al primo piano di rue

Eugene

Hugo

non c’è la stanza gotica e neppure sua madre,

ma le porte in fila e i tre gradini su minuscoli giardini, 

tra cespugli di ortensie e qualche rosa,

addormentata.

Poi

scende di nuovo l’ora

indaco e blu,

e sul cielo capovolto di piazza

Stan, per un attimo

deserta,

mentre all’Autre Canal la musica

va,

immagini affollano testa e occhi di chi

tira dritto non si sa diretto

dove,

con il trolley, o qualche

course,

verso Luneville,

verso la gare,

o la T1 direzione

Brabois…

“Nancy”, traduction en français

La cire perdue,

les acides

la poussière.

Et tous les secrets des maîtres verriers pour retenir la lumière,

la recréer,

suivre et réinventer

ses reflets,

en ajoutant et en ôtant

de la matière à la matière,

de la couleur à la couleur.

L’âme comme le verre,

ici,

travaillée de la même manière par la même

lumière,

sort de la chambre noire du sommeil

et Nancy est déjà

transparence claire, impermanence du

vent violent

et des nuages.

Le ciel,

tout près,

au-dessus,

dedans,

change (avec) les gens :

ils se pressent,

occupés à vivre,

et puis rentrent chez eux

comme dans un rêve,

– vite –

dès que la lumière descend drue sur les places et sur Amphitrite

à moitié nue.

Au-delà

les portes en flamme

donnent accès au parc et au souffle

des millions de feuilles de la Pépi,

noires comme la nuit,

puis, plus claires et puis encore

davantage au Chapiteau.

Notes de blues

notes de sax

notes de jazz.

Le violon

envoûté

de Ponty

caresse séduit raye la nuit et la soigne,

de beauté.

Et puis,

irréels et comme seulement pensés ou imaginés,

des touristes.

Ils parlent sans relâche en file sur les trottoirs ou en sortant des bars,

les voix flottantes, des îles de son,

dans la mer d’ouate éclairée par les phares.

Sortilège de l’obscurité, tout disparaît,

même la volonté d’être, de penser,

a sa propre nuit et sa trêve.

Le vent

s’endort.

Quelque chose de non dit depuis toujours,

quelques mots ou gestes que tous les soirs on essaye de finir

restent inachevés et recommencent

à nouveau.

Des courants,

sortis de nulle part, poussent

une clarté éblouissante à inonder

la Place Stan,

et à devenir une rafale de gouttes et puis

un coucher de soleil couleur de l’aube. Au premier

étage

l’or des lys de France et des feuilles du chêne

semble être un écho à celui

du Caravage :

ses lames de soleil liquide annoncent une naissance

qui viendra,

mais qui est déjà tout entière dans cette clarté et brûle

sous l’orange des lumières iodées des terrasses,

réchauffent le temps d’un dernier café.

Les gens,

avec des couvertures sur les genoux ou sur les épaules, qui rient fument bavardent

boivent rient bavardent

racontent qu’ils bavardent et qu’ils rient.

Parmi les tulipes et le Vol de mon amour

de Daum,

et encore plus haut,

sur l’affiche de Cendrillon de l’Opéra,

Mercure danse devant le Soleil,

la prochaine fois ce sera en 2032,

un ciel gris neige cache l’éclipse partielle aux yeux d’enfants congelés,

ils courent et ils jouent toujours aux mêmes jeux

certains d’être les premiers au monde.

Et déjà l’aube à nouveau,

une lenteur ébahie qui souffle de la lumière,

nous rend légers,

prêts à la géographie d’un nouveau jour.

Il suffit de chuchoter doucement,

d’allonger la main,

de chercher une réponse ou

d’y renoncer et de ne plus 

y penser.

Sur le rouge du velours des banquettes

du Café Foy :

la vie peut changer

il suffit de changer

de perspective, de centre de gravité, de mots.

L’obscurité

qui devient son,

pousse la lumière,

qui emporte ailleurs

du mystère.

La ville

renaît,

des grilles pour protéger de minuscules cours,

de grenadiers et de mirabelliers

et de myrtes.

Des lumières paresseuses

s’allument,

des ombres

passent et repassent là où

elles étaient passées,

avec une grande serviette.

Puis les voix commencent,

à entrer dans le matin qui se lève et devient

bruit.

Ce que la nuit avait rendu éternel et possible

ne l’est plus mais

le sera à nouveau,

d’une autre manière :

dans la Grand Rue,

sa blancheur pérenne, constellé d’or de fenêtres,

toujours allumées et toujours fermées,

où personne ne se montre jamais,

que personne n’ouvre jamais,

dans la rue des Cordeliers,

persistante de haies vertes

et de nids,

sur la place Saint-Epvre un son de verres,

la masse de ceux qui boivent un café ou une bière pour le petit-déjeuner et qui sait ce qu’ils pensent, s’ils pensent

ou s’ils le font pour ne pas penser.

Certains restent à la même table,

se confondent avec l’après-midi et glissent et deviennent soir

de rires,

de happy hour couleur ambre et rubis.

Les jeunes,

à cette heure-là,

posent leur journée d’étude et font du sport

dans la salle aux miroirs du bâtiment entouré de pelouse

de la Fac.

Ils ont rendu le monde meilleur rien qu’en étant là

en étant curieux et en le regardant avec leurs yeux

jeunes.

Rien ne sort de l’ordre

pré-établi

Mais c’est un ordre qui invente

mille futurs. Dans le froid

de Noël approchant, des clochards,

celui de l’Arc Héré,

entouré de bougies sous les poissons volants de l’installation Arc’Quatique,

celui qui à deux heures entre et sort du Carrefour déjà saoul et va s’asseoir,

avec son chien tigré,

sur un carton,

et ceux et celles sur d’autres cartons sous Au bon lit,

ou dans un renfoncement sous les distributeurs

de la rue saint Jean, des Dominicains, saint Dizier.

Le canal

avec son restaurant flotte

dans la ville

nouvelle,

les Anciens Abattoirs viennent de loin et vont loin,

carrefour du temps qui revient en arrière et projette vers un autre / crée un autre

temps,

un souvenir dans les mots de quelqu’un,

l’atmosphère de fumée et les soirées infinies

de l’Excelsior,

les portes tournent et tournent encore, sliding doors vers d’autres dimensions,

et à l’étang

de l’Ecole de Nancy

les nénuphars qui ont inspiré les maîtres-verriers

attendent que d’autres les capturent avec les mêmes yeux ou des yeux différents

et les rendent immortels cette fois sur une photo, un selfie,

ou dans une âme assoiffée

de beauté.

Des jeunes filles

disparaissent toutes les nuits

entre 2h et 3h du matin,

entre les mailles élargies du temps,

toutes amoureuses, toutes vêtues de fleurs.

Quelqu’un

les a vues marcher rapidement, dit-il, rue de la Charité, non rue de la Source,

non, parmi les hêtres

pourpres, les cèdres du Liban, le Séquoia

géant

qui observent le monde du haut de leurs 30, 50, 70 mètres et de leur cent ans

et parfois

plus.

Ils les ont sauvés,

c’est inscrit sur la plaque,

et leur présence est peut-être un récit tout vert des époques passées, des guerres et des libérations passées,

des bombardements passés,

qui n’ont pas arrêté les luttes,

pour le futur qui est le présent

des nancéiens passés.

Quelqu’un d’autre au contraire

dit voir ces jeunes filles depuis des mois,

tous les vendredis, à l’aube, transies,

entrer dans l’ancienne

graineterie Genin,

ses pétales et son bleu turquoise s’illuminent alors pendant un instant comme Swarovsky,

derrière les annonces immobilières et les vieilles

affiches

fanées.

Peut-être

rentrent-elles d’une longue baignade à la Piscine

Ronde.

Entre les colonnes

elle attend une eau que quelqu’un a asséché pour cause de travaux,

belle, fragile et si puissante même sans eau,

même si son futur est plein de projets, d’hypothèses et de questions,

mais en ce moment elle est silencieuse,

oubliée dans le cœur d’un hiver blanc,

assourdissante de solitude et de fantômes

de baigneuses. Et

de Gretchen.

Elle aussi

peut-être

a nagé ici,

avant de voler sur son vélo

au-delà de la place du Lycée

Chopin,

pour attendre son petit-ami, au premier étage de la rue

Eugène

Hugo

il n’y a pas de chambre gothique ni sa mère,

mais une suite de portes et les trois marches qui donnent sur de minuscules jardins,

parmi des buissons d’hortensias et quelques roses,

endormies.

Puis

l’heure indigo et bleu nuit

tombe à nouveau

et sur le ciel inversé de la place

Stan, un instant

déserte,

pendant qu’à l’Autre Canal la musique

continue,

des images emplissent la tête et les yeux de ceux qui

vont tout droit, on ne sait pas vers

où,

avec leur valise à roulettes, ou quelques

courses,

vers Lunéville,

vers la gare,

ou vers la ligne T1 direction

Brabois…